di G.Leopardi
Tornami a mente il d�
che la battaglia
D'amor sentii la prima
volta, e dissi:
Oim�, se quest'� amor,
com'ei travaglia!
Che gli occhi al suol
tuttora intenti e fissi
Io mirava colei ch'a
questo core
Primiera il varco ed
innocente aprissi.
Ahi come mal mi
governasti, amore!
Perch� seco dovea s�
dolce affetto
Recar tanto desio, tanto
dolore?
E non sereno, e non
intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e
di lamento
Al cor mi discendea
tanto diletto?
Dimmi, tenero core, or
che spavento,
Che angoscia era la tua
fra quel pensiero
Presso al qual t'era
noia ogni contento?
Quel pensier che nel d�,
che lusinghiero
Ti si offeriva nella
notte, quando
Tutto queto parea
nell'emisfero:
Tu inquieto, e felice e
miserando,
M'affaticavi in su le
piume il fianco
Ad ogni or fortemente
palpitando.
E dove io tristo ed
affannato e stanco
Gli occhi al sonno
chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno
venia manco.
Oh come viva in mezzo
alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e
gli occhi chiusi
La contemplavan sotto
alle palpebre!
Oh come soavissimi
diffusi
Moti per l'ossa mi
serpeano, oh come
Mille nell'alma
instabili, confusi
Pensieri si volgean!
qual tra le chiome
D'antica selva zefiro
scorrendo,
Un lungo, incerto
mormorar ne prome.
E mentre io taccio, e
mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor,
che si partia
Quella per che penando
ivi e battendo?
Il cuocer non pi� tosto
io mi sentia
Della vampa d'amor, che
il venticello
Che l'aleggiava,
volossene via.
Senza sonno io giacea
sul d� novello,
E i destrier che dovean
farmi deserto,
Battean la zampa sotto
al patrio ostello.
Ed io timido e cheto ed
inesperto,
Ver lo balcone al buio
protendea
L'orecchio avido e
l'occhio indarno aperto,
La voce ad ascoltar, se
ne dovea
Di quelle labbra uscir,
ch'ultima fosse;
La voce, ch'altro il
cielo, ahi, mi togliea.
Quante volte plebea voce
percosse
Il dubitoso orecchio, e
un gel mi prese,
il core in forse a
palpitar si mosse'
E poi che finalmente mi
discese
a cara voce al core, e
de' cavai
delle rote il romorio
s'intese;
Orbo rimaso allor, mi
rannicchiai
Palpitando nel letto e,
chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la
mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli
ginocchi
Stupidamente per la muta
stanza,
Ch'altro sar�, dicea,
che il cor mi tocchi?
Amarissima allor la
ricordanza
Locommisi nel petto, e
mi serrava
Ad ogni voce il core, a
ogni sembianza.
E lunga doglia il sen mi
ricercava,
Com'� quando a distesa
Olimpo piove
Malinconicamente e i
campi lava.
Ned io ti conoscea,
garzon di nove
E nove Soli, in questo a
pianger nato
Quando facevi, amor, le
prime prove.
Quando in ispregio ogni
piacer, n� grato
M'era degli astri il
riso, o dell'aurora
Queta il silenzio, o il
verdeggiar del prato.
Anche di gloria amor
taceami allora
Nel petto, cui scaldar
tanto solea,
Che di beltade amor vi
fea dimora.
N� gli occhi ai noti
studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani
per cui
Vano ogni altro desir
creduto avea.
Deh come mai da me s�
vario fui,
E tanto amor mi tolse un
altro amore?
Deh quanto, in verit�,
vani siam nui!
Solo il mio cor
piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar
sepolto,
Alla guardia seder del
mio dolore.
E l'occhio a terra chino
o in se raccolto,
Di riscontrarsi
fuggitivo e vago
N� in leggiadro soffria
n� in turpe volto:
Che la illibata, la
candida imago
Turbare egli temea pinta
nel seno,
Come all'aure si turba
onda di lago.
E quel di non aver
goduto appieno
Pentimento, che l'anima
ci grava,
E il piacer che pass�
cangia in veleno,
Per li fuggiti d� mi
stimolava
Tuttora il sen: che la
vergogna il duro
Suo morso in questo cor
gi� non oprava.
Al cielo, a voi, gentili
anime, io giuro
Che voglia non m'entr�
bassa nel petto,
Ch'arsi di foco
intaminato e puro.
Vive quel foco ancor,
vive l'affetto,
Spira nel pensier mio la
bella imago,
Da cui, se non celeste,
altro diletto
Giammai non ebbi, e sol
di lei m'appago.