MERIGGIO DI D�ANNUNZIO |
A mezzo il
giorno |
L�opera Meriggio � una delle poesie che fa parte dell �ALCIONE, composta nei 1902. Viene messo in evidenza qui il senso centrale dell�Alcyone, ossia il senso panico della natura, come la coscienza umana si libera nel vivere sensualmente e istintivamente. Il Meriggio � ambientato in un grande silenzio che fa risaltare la sensibilit� uditiva e visiva. Qui D�Annunzio si sente a met� tra sogno e realt�, e finisce con "l�unirsi"(panismo) ai cicli della natura, e si sente cos� vivo e parte dalla vita naturale e universale. Il suo Io lascia il corpo, il tempo e tutto quanto per arrivare oltre. Adesso D�Annunzio si entusiasma a tal punto da provare una nuova sensazione d� infinito, dove finisce per trovarsi in uno stato di "panica dolcezza".
Dall� analisi del testo, risalta molto la fuga del poeta dalla vita umana, � come se lui fosse diventato parte integrante della natura. "Perduta � ogni traccia dell�uomo. Voce non suona, se ascolto. Ogni duolo umano m�abbandona...". Queste parole ci fanno capire come D�Annunzio si lasci andare alla vita della natura, diventandone una parte. C�� un superamento dell�individualit� che consegue un�estasi divina. La descrizione del paesaggio � cos� dettagliata che il lettore si immerge nella lettura e crede quasi di vivere le stesse sensazione del poeta.
PARAFRASI
Verso il mezzogiorno sul Mar del Tirreno, pallido e di
un color verde, come gli oggetti di bronzo disseppelliti dalle tombe
etrusche,grava la bonaccia. Non si sente un minimo di vento sull�atmosfera. Non
d� segni di movimento la canna solitaria sulla spiaggia, di piante selvatiche e
di ginepri bruciati dal sole. Se insisto ad ascoltare non sento alcun suono. La
fila di navi bianche sta ferma verso Livorno. Nel chiaro silenzio vedo le isole
del Faro, di fronte alla costa Toscana e ancor pi� lontano, appaiono come forme
d�aria, isole da te tanto odiate, o Dante, la tua Capraia e la Gorgogna.
Sono alla vista le Alpi Apuane come un insieme di grande
montagne dalle quali si estrae il marmo, che regnano orgogliosamente.
Come uno stagno salato del colore del mare � la foce, in mezzo alle
capanne, dentro le reti che prendono dagli staggi che formano una croce. Come il
bronzo delle tombe, � verde pallido e in pace sorrido, quasi come le acque del
fiume Lete, portatore di calma, non evidenzia segno di corrente o piega d�aria.
I due fiumi tendono a chiudersi come in un cerchio di canne che circoscrive con
una totale dimenticanza silenziosa, e le canne tacciono. Formano un cupo recinto
i boschi scuri di san Rossore , ma quelli lontani verso il gombo e verso il
Serchio sono quelli pi� azzurri. I monti Pisani sono coperti dalla nebbia, dal
colore e dappertutto c�� silenzio.
Ormai l�estate sta diventando matura sulla mia testa come un frutto che mi �
stato promesso , colto con la mia mano e che succhio con le mie labbra. Ogni
traccia d�uomo � perduta. Se tendo ad ascoltare, non c�� voce. Ogni dolore umano
mi abbandona. Non ho pi� nome, e che la mia barba brilla come la paglia marina;
sento che il lido rigato con il leggero lavoro dell�onda e dal vento � come il
mio palato, � come il cavo della mia mano dove tutti si affinano.
E la mia forza si dispiega nell�arena, diffondendosi nel mare, il fiume � la mia
vena, il monte la mia fonte, la selvaggina il mio pube, le nubi il mio sudore. E
io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia del pino, nella barca del
ginepro: io sono nel fuco, nella paglia marina, in ogni esigente, immateriale,
nella sabbia continua, nelle vette lontane. Bruco e risplendo. Non ho pi� nome.
Le alpi, le isole, i golfi, i capi, i fari, i boschi, le foci non hanno pi� il
loro nome che viene pronunciato dalle labbra umane. Non ho pi� nome ne destino
tra gli uomini; ma il mio nome � pomeriggio. In tutto io vivo, silenzioso come
la morte. E la mia vita � divina.
STILE
Al descrittivismo delle prime strofe, subentra la gonfiezza oratoria e predicatoria . La tensione retorica � tradita da vari indizi: l'enfasi studiata delle ripetizioni ("che promesso mi sia", "che cogliere io debba", "che suggere io debba"); il ricorrere di proposizioni solenni, lapidarie ed assolute, ripetute quasi come formule liturgiche ("non ho pi� nome", "non ho pi� nome n� sorte"); le maiuscole con cui sono designate certe realt� ("L'Estate", "il mio nome � Meriggio"), che rivelano la volont� di caricarle di grandi significati, di innalzarle a entit� ineffabili, uniche e divine; le serie enumerative incalzanti (il "fiume", il "monte", la "selva", la "nube"; la "stiancia", la "scaglia della pina", la "bacca del ginepro"; il "fuco", "la paglia marina"; "E l'alpi e l'isole e i golfi / e i capi e i fari e i boschi/ e le foci ... "). La gonfiezza predicatoria � sommersa da un'onda musicale fluente, data dal succedersi dei versi brevi e agili, degli enjambements, delle rime ora baciate ora distanziate di alcuni versi, ora "al mezzo" ("delicato"/ "palato", "pube"/ "nube", "pina"/ "marina"), ora interne ad un verso solo ("monte"/ "fronte"): ma tutto questo non vale a mascherare la sostanza autentica del discorso oratorio.