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POESIE DI GIACOMO LEOPARDI
IMITAZIONE DI LEOPARDI Lungi dal propio ramo, Povera foglia frale, Dove vai tu? Dal faggio Là dov'io nacqui, mi divise il vento. Esso, tornando, a volo Dal bosco alla campagna, Dalla valle mi porta alla montagna. Seco perpetuamente Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro. Vo dove ogni altra cosa, Dove naturalmente Va la foglia di rosa, E la foglia d'alloro. Alla sua donna Cara beltà che amore Lunge m'inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne' campi ove splenda Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l'innocente Secol beasti che dall'oro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti omai Nulla spene m'avanza; S'allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Fra cotanto dolore Quanto all'umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora Questo viver beato: E ben chiaro vegg'io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne` prim'anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria Simile a quella che nel cielo india. Per le valli, ove suona Del faticoso agricoltore il canto, Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m'abbandona; E per li poggi, ov'io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta Speme de' giorni miei; di te pensando, A palpitar mi sveglio. E potess'io, Nel secol tetro e in questo aer nefando, L'alta specie serbar; che dell'imago, Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago. Se dell'eterne idee L'una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s'altra terra ne' superni giri Fra' mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d'ignoto amante inno ricevi. AMORE E MORTE Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, nasce il piacer maggiore che per lo mar dell’essere si trova; l’altra ogni gran dolore, ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, dolce a veder, non quale la si dipinge la codarda gente, gode il fanciullo Amore accompagnar sovente; e sorvolano insiem la via mortale, primi conforti d’ogni saggio core. Nè cor fu mai più saggio che percosso d’amor, nè mai più forte sprezzò l’infausta vita, nè per altro signore come per questo a perigliar fu pronto: ch’ove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, o si ridesta; e sapiente in opre, non in pensiero invan, siccome suole, divien l’umana prole. Quando novellamente nasce nel cor profondo un amoroso affetto, languido e stanco insiem con esso in petto un desiderio di morir si sente: come, non so: ma tale d’amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura allor questo deserto: a se la terra forse il mortale inabitabil fatta vede omai senza quella nova, sola, infinita felicità che il suo pensier figura: ma per cagion di lei grave procella presentendo in suo cor, brama quiete, brama raccorsi in porto dinanzi al fier disio, che già, rugghiando, intorno intorno oscura. Poi, quando tutto avvolge la formidabil possa, e fulmina nel cor l’invitta cura, quante volte implorata con desiderio intenso, Morte, sei tu dall’affannoso amante! quante la sera, e quante abbandonando all’alba il corpo stanco, se beato chiamò s’indi giammai non rilevasse il fianco, nè tornasse a veder l’amara luce! E spesso al suon della funebre squilla, al canto che conduce la gente morta al sempiterno obblio, con più sospiri ardenti dall’imo petto invidiò colui che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe, l’uom della villa, ignaro d’ogni virtù che da saper deriva, fin la donzella timidetta e schiva, che già di morte al nome sentì rizzar le chiome, osa alla tomba, alle funeree bende fermar lo sguardo di costanza pieno, osa ferro e veleno meditar lungamente, e nell’indotta mente la gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina d’amor la disciplina. Anco sovente, a tal venuto il gran travaglio interno che sostener nol può forza mortale, o cede il corpo frale ai terribili moti, e in questa forma pel fraterno poter Morte prevale; o così sprona Amor là nel profondo, che da se stessi il villanello ignaro, la tenera donzella con la man violenta pongon le membra giovanili in terra. Ride ai lor casi il mondo, a cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici, agli animosi ingegni l’uno o l’altro di voi conceda il fato, dolci signori, amici all’umana famiglia, al cui poter nessun poter somiglia nell’immenso universo, e non l’avanza, se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni sempre onorata invoco, bella Morte, pietosa tu sola al mondo dei terreni affanni, se celebrata mai fosti da me, s’al tuo divino stato l’onte del volgo ingrato ricompensar tentai, non tardar più, t’inchina a disusati preghi, chiudi alla luce omai questi occhi tristi, o dell’età reina. Me certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi, erta la fronte, armato, e renitente al fato, la man che flagellando si colora nel mio sangue innocente non ricolmar di lode, non benedir, com’usa per antica viltà l’umana gente; ogni vana speranza onde consola se coi fanciulli il mondo, ogni conforto stolto gittar da me; null’altro in alcun tempo sperar, se non te sola; solo aspettar sereno quel dì ch’io pieghi addormentato il volto nel tuo virgineo seno. LA SERA DEL DI’ DI FESTA Dolce e chiara è la notte e senza vento, e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, ché t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. – A te la speme nego, mi disse, anche la speme,; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. – Questo dì fu solenne; or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via odo non lunghe il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi e il fragorìo che n’andò per la terra e l’oceàno? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco già similmente mi stringeva il core. IL PASSERO SOLITARIO D'in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finchè non more il giorno; Ed erra l'armonia per questa valle. Primavera dintorno Brilla nell'aria, e per li campi esulta, Sì ch'a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli, Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi Dell'anno e di tua vita il più bel fiore. Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, Della novella età dolce famiglia, E te german di giovinezza, amore, Sospiro acerbo de' provetti giorni, Non curo, io non so come; anzi da loro Quasi fuggo lontano; Quasi romito, e strano Al mio loco natio, Passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch'omai cede la sera, Festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, Odi spesso un tonar di ferree canne, Che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s'allegra . Io solitario in questa Rimota parte alla campagna uscendo, Ogni diletto e gioco Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell'aria aprica Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno. Tu solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni nostra vaghezza A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all'altrui core, E lor fia voto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, Che parrà di tal voglia? Che di quest'anni miei? Che di me stesso? Ahi pentiromi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passegger che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende? O torna all'opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena E' diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! assai felice Se respirar ti lice D'alcun dolor: beata Se te d'ogni dolor morte risana. IL SABATO DEL VILLAGGIO La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole, col suo fascio dell'erba; e reca in mano un mazzolin di rose e viole, onde, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dí di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine su la scala a filar la vecchierella, incontro là dove si perde il giorno; e novellando vien del suo buon tempo, quando ai dí della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella solea danzar la sera intra di quei ch'ebbe compagni nell'età piú bella. Già tutta l'aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre giú da' colli e da' tetti, al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno della festa che viene; ed a quel suon diresti che il cor si riconforta. I fanciulli gridando su la piazzuola in frotta, e qua e là saltando, fanno un lieto romore; e intanto riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore, e seco pensa al dí del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l'altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s'affretta, e s'adopra di fornir l'opra anzi al chiarir dell'alba. Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l'ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è come un giorno d'allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa ch'anco tardi a venir non ti sia grave. L'INFINITO Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. Alla luna O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l'anno, sovra questo colle io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era mia vita: ed è, nè cangia stile o mia diletta luna. E pur mi giova la ricordanza, e il noverar l'etate del mio dolore. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso il rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l'affanno duri! A SILVIA Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all'opre femminili intenta Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce: agli anni miei Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme! Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. "Canto Notturno di un Pastore Errante dell'Asia" Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l'ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e piú e piú s'affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch'arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov'ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale. Nasce l'uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene, l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell'umano stato: altro ufficio piú grato non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sí pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir dalla terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l'ardore, e che procacci il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. spesso quand'io ti miro star cosí muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Cosí meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell'innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d'ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno quasi libera vai; ch'ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma piú perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, tu se' queta e contenta; e gran parte dell'anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, e un fastidio m'ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge sí che, sedendo, piú che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. se tu parlar sapessi, io chiederei: - Dimmi: perché giacendo a bell'agio, ozioso, s'appaga ogni animale; me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? - Forse s'avess'io l'ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, piú felice sarei, dolce mia greggia, piú felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dí natale. Vita solitaria La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s'affaccia L'abitator de' campi, e il Sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l'aura fresca. E le ridenti piagge benedico: Poichè voi, cittadine infauste mura, Vidi e conobbi assai, là dove segue Odio al dolor compagno; e doloroso Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna Benchè scarsa pietà pur mi dimostra Natura in questi lochi, un giorno oh quanto Verso me più cortese! E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando Le sciagure e gli affanni, alla reina Felicità servi, o natura. In cielo, In terra amico agl'infelici alcuno E rifugio non resta altro che il ferro. Talor m'assido in solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d'un lago Di taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, La sua tranquilla imago il Sol dipinge, Ed erba o foglia non si crolla al vento, E non onda incresparsi, e non cicala Strider, nè batter penna augello in ramo, Nè farfalla ronzar, nè voce o moto Da presso nè da lunge odi nè vedi. Tien quelle rive altissima quiete; Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, nè spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica Co' silenzi del loco si confonda. Amore, amore, assai lungi volasti Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, Anzi rovente. Con sua fredda mano Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo Che mi scendesti in seno. Era quel dolce E irrevocabil tempo, allor che s'apre Al guardo giovanil questa infelice Scena del mondo, e gli sorride in vista Di paradiso. Al garzoncello il core Di vergine speranza e di desio Balza nel petto; e già s'accinge all'opra Di questa vita come a danza o gioco Il misero mortal. Ma non sì tosto, Amor, di te m'accorsi, e il viver mio Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi Non altro convenia che il pianger sempre. Pur se talvolta per le piagge apriche, Su la tacita aurora o quando al sole Brillano i tetti e i poggi e le campagne, Scontro di vaga donzelletta il viso; O qualor nella placida quiete D'estiva notte, il vagabondo passo Di rincontro alle ville soffermando, L'erma terra contemplo, e di fanciulla Che all'opre di sua man la notte aggiunge Odo sonar nelle romite stanze L'arguto canto; a palpitar si move Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano Ogni moto soave al petto mio. O cara luna, al cui tranquillo raggio Danzan le lepri nelle selve; e duolsi Alla mattina il cacciator, che trova L'orme intricate e false, e dai covili Error vario lo svia; salve, o benigna Delle notti reina. Infesto scende Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro A deserti edifici, in su l'acciaro Del pallido ladron ch'a teso orecchio Il fragor delle rote e de' cavalli Da lungi osserva o il calpestio de' piedi Su la tacita via; poscia improvviso Col suon dell'armi e con la rauca voce E col funereo ceffo il core agghiaccia Al passegger, cui semivivo e nudo Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre Per le contrade cittadine il bianco Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi Va radendo le mura e la secreta Ombra seguendo, e resta, e si spaura Delle ardenti lucerne e degli aperti Balconi. Infesto alle malvage menti, A me sempre benigno il tuo cospetto Sarà per queste piagge, ove non altro Che lieti colli e spaziosi campi M'apri alla vista. Ed ancor io soleva, Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso Raggio accusar negli abitati lochi, Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando Scopriva umani aspetti al guardo mio. Or sempre loderollo, o ch'io ti miri Veleggiar tra le nubi, o che serena Dominatrice dell'etereo campo, Questa flebil riguardi umana sede. Me spesso rivedrai solingo e muto Errar pe' boschi e per le verdi rive, O seder sovra l'erbe, assai contento Se core e lena a sospirar m'avanza.PER COMMENTI CLICCA
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