GIOVANNI VERGA

GIOVANNI VERGA : vita e opere


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      RIASSUNTI I MALAVOGLIA               LA MORTE DI BASTIANAZZO 

                                                              I PROVERBI DEL ROMANZO

GIOVANNI VERGA

Nato a Catania nel 1840, fu il massimo esponente del verismo. La sua prima formazione romantico-risorgimentale si svolse a Catania, dove abbandonando gli studi giuridici, decise di dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Trasferitosi a Firenze nel 1865 compose i suoi primi romanzi Una peccatrice e Storia di una Capinera. Successivamente a Milano frequentò l'ambiente degli Scapigliati, rappresentando in modo fortemente critico il mondo aristocratico-borghese (Eva, 1873; Tigre Reale, 1873; Eros,1875). In seguito alla scoperta del naturalismo francese matura la sua svolta decisiva verso il verismo che sarà segnato dai racconti e dai romanzi di ambiente siciliano (Vita dei campi, 1880; I Malavoglia, 1881; Novelle rusticane, 1883; Mastro don Gesualdo, 1889). Lo scrittore crede nel progresso ma si interessa ai vinti e ai deboli; la sua è una visione della vita tragicamente pessimistica che si pone in antitesi con l'ottimismo imperante nei suoi tempi. Rappresenta un mondo di primitivi in lotta con il destino avverso cui inesorabilmente soccombono quando si staccano dalla religione, dalla famiglia e dal lavoro. Il linguaggio verghiano è arditamente innovatore: dando spazio al linguaggio dialettale riesce a raggiungere effetti di grandiosa coralità. Alla produzione narrativa si accompagnò quella teatrale, connotata sempre da una intensa drammaticità (Cavalleria rusticana, 1884; La lupa, 1884; In portineria, 1885; Dal tuo al mio, 1903). Lo scrittore muore nella sua città natale nel 1922.

LA POETICA

Verga, a differenza di altri scrittori, non espose le proprie idee sulla letteratura e sull’arte in opere compiute; preferisce invece immergersi nel suo scrupoloso e concreto lavoro di scrittore. Il canone fondamentale a cui si ispira è quello dell’impersonalità (per altro comune ai veristi), che egli intende innanzi tutto come "schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa". Verga vuole indagare nel misterioso processo dei sentimenti umani presentando il fatto nudo e schietto come è stato "raccolto per viottoli dei campi, press’a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare", sacrificando "l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno imprevedibile ma non meno fatale"; l’obiettivo è quello di giungere a un romanzo in cui l’affinità di ogni sua parte sarà completa, in cui il processo della creazione rimarrà un mistero, la mano dell’artista rimarrà invisibile e "l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé". Verga vuole rappresentare la lotta per la vita ripercorrendo la scala sociale, dai livelli più bassi a quelli più elevati e questo sia per la sua esigenza personale di rimeditare la propria esperienza umana e artistica e anche per estendere l’indagine che si era in genere limitata ai ceti popolari, alle classi più alte. Le tecniche narrative riguardano il rapporto tra autore e materia rappresentata, le tecniche espressive, la sintassi e il lessico. La novità di Verga sta nella distinzione tra autore e narratore e nella definizione e invenzione del narratore regredito. L’autore per essere impersonale deve rinunciare ai suoi pensieri e giudizi, alla sua morale e cultura perché non deve esprimere se stesso ma si deve nascondere impedendo così al lettore di percepire la sua presenza. Verga cerca di realizzare l’eclissi dell’autore delegando la funzione narrante a un narratore che è perfettamente inserito nell’ambiente rappresentato, regredito al livello sociale e culturale dei personaggi rappresentati che assume la loro mentalità e non fa trapelare l’idea dell’autore. Il narratore assume così, un aspetto camaleontico evidente soprattutto nei Malavoglia. Verga vuole essere impersonale fino in fondo e, oltre a rinunciare alla sua mentalità ai suoi ideali e principi rinuncia anche alla sua lingua e cerca di adottare un tipo di espressione più vicina possibile agli umili rappresentati; l’autore cerca, infatti, di studiare la sintassi del dialetto siciliano e tenta di riprodurre tale struttura della frase nella lingua italiana, citando spesso proverbi che appartengono alla cultura locale. L’autore utilizza anche la tecnica del discorso indiretto libero tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolano e di identificarsi col pensiero della gente del posto. E’ utilizzato anche l’artificio dello straniamento realizzato attraverso un modo di raccontare i fatti secondo cui quello che è normale appare strano e viceversa.

LA CONCEZIONE DELLA VITA

Il Verga ebbe una concezione dolorosa e tragica della vita. Pensava che tutti gli uomini fossero sottoposti a un destino impietoso e crudele che li condanna non solo all’infelicità e al dolore, ma ad una condizione di immobilismo nell’ambiente familiare, sociale ed economico in cui sono venuti a trovarsi nascendo. Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto, non trova la felicità sognata, ma va incontro a sofferenze maggiori, come succede a’Ntoni Malavoglia e a Mastro Don Gesualdo. Con questa visione un po’ pietrificata della società il Verga rinnova il mito del fato ( cioè la credenza in una potenza oscura e misteriosa che regola imperscrutabilmente le vicende degli uomini), ma senza accompagnarlo con il sentimento della ribellione in quanto non crede nella possibilità di un qualsiasi cambiamento o riscatto. Per il Verga non rimane che la rassegnazione eroica e dignitosa al proprio destino. Questa concezione fatalistica e immobile dell’uomo sembra contraddire la fede nel progresso propria delle dottrine positivistiche ed evoluzionistiche. In verità, Verga non nega il progresso, ma lo riduce alle sole forme esteriori ed appariscenti; in ogni caso, è un progresso che comporta pene infinite. La visione verghiana del mondo sarebbe la più squallida e desolata di tutta la letteratura italiana se non fosse confortata da tre elementi positivi. Il primo è quel sentimento della grandezza e dell’eroismo che porta il Verga ad assumere verso i "vinti" un atteggiamento misto di pietà e di ammirazione: pietà per le miseria e le sventure che li travagliano, ammirazione per la loro rassegnazione. Secondo elemento positivo è la fede in alcuni valori che sfuggono alla dure leggi del destino e della società: la religione, la famiglia, la casa, la dedizione al lavoro, lo spirito del sacrificio e l’amore nutrito di sentimenti profondi ma fatto di silenzi, sguardi furtivi e di pudore. Il terzo elemento è la saggezza che ci viene dalla coscienza dei nostri limiti e ci porta a sopportare le delusioni.

CAVALLERIA RUSTICANA

Nacque come episodio del romanzo I Malavoglia (1881) ma fu pubblicato come racconto a sé stante sul Fanfulla della Domenica del 14 marzo 1880. Nello stesso anno confluì nella raccolta di novelle Vita dei Campi (1880), pubblicata presso l’editore Treves di Milano. Verga ne ricavò poi un dramma in un solo atto, Cavalleria rusticana. Scene popolari, rappresentato con successo al Teatro Carignano di Torino il 14 gennaio 1884. Nel 1890 Pietro Mascagni lo tradusse musicalmente su libretto di Giovanni Torgioni-Tozzetti e Guido Menasci. In Cavalleria rusticana “l’eroe” Turiddu torna nel suo paese dal servizio militare e si ritrova in una realtà che sente estranea, con la quale l’unico legame è la silenziosa figura materna. Lola, la donna che ama da sempre, è ormai sposata con il carrettiere Alfio. Passione e gelosia lo portano ad innescare la tragedia, che culmina con il duello tra i due rivali, nel quale la vendetta del marito offeso nell’onore si consuma e in cui Turiddu perde la vita. Solamente in questa novella e ne La Lupa (1880) Verga è riuscito a rappresentare in modo così ampio e profondo i temi della passione, della repressione, il triangolo amoroso e il delitto d’onore. La tensione e i toni sono forti, i personaggi sono pochi e la narrazione è rapida. Nella versione teatrale, del 1884, l’attenzione si sposta principalmente su Santuzza, la nuova fidanzata del protagonista, e si passa dal duello d’onore al dramma privato di questa figura femminile. Consigliamo di leggere anche il saggio critico su questo testo, dal titolo "Tre coltellate per compare Turiddu", a cura di Pietro Gibellini.

LA LUPA

La Lupa è la spina dorsale della raccolta di novelle Vita dei Campi, pubblicata nel 1880. E’ la storia di un personaggio che Verga deve aver realmente conosciuto. Si tratta della ‘gna Pina, una bella donna, nota in tutto il paese come la “lupa”. Il lupo è per definizione un animale vorace che si ciba di tutto, anche di ciò che non gli è lecito mangiare. La trasposizione di questo significato nella donna ha una valenza negativa: la ‘gna Pina è infatti emarginata dalla collettività. Il suo forte istinto sessuale è vissuto come un bisogno vitale e in questo sta la sua colpa e la vergogna. I paesani la vedono aggirarsi per le strade nelle ore più calde del giorno e la temono. E’ un’ossessa e non sa darsi pace, neanche dopo aver conquistato la sua “preda”. Una delle vittime della sua voracità è Nanni, il marito della figlia Maricchia, un ragazzo buono e premuroso che cade nella trappola dell’amore distruttivo della ‘gna Pina. Dopo aver assolto il servizio militare, Nanni torna nel paese e prende in sposa Maricchia, spinto sia dai suoi sentimenti sinceri per la ragazza sia perché allettato dalla “roba”, uno dei bisogni fondamentali dell’uomo verghiano. Infatti, sposando Maricchia, Nanni diviene padrone delle proprietà che il marito della Lupa ha lasciato morendo, ma deve continuamente scontrarsi con l’ingordigia della donna. Il delirante e accecante amore della ‘gna Pina si trasforma inevitabilmente in un turbine di pazzia, che porterà alla totale degenerazione della storia.

I MALAVOGLIA

Le vicende si svolgono nei primi anni dell’unità d’Italia, tra il 1863 ed il 1876 ad Acitrezza. Prendono le mosse da una piccola speculazione commerciale che padron ‘Ntoni intraprende per migliorare le condizioni della famiglia, aggravatasi quando il nipote ‘Ntoni va a fare il soldato e viene meno il suo lavoro. Padron ‘Ntoni acquista a credito dallo zio Crocifisso una partita di lupini, che Bastianazzo imbarca sulla "Provvidenza" per andare a venderli. Durante il tragitto una tempesta provoca la perdita del carico di lupini e la morte di Bastianazzo. A questa seguono altre disgrazie: la morte di Luca nella battaglia di Lissa, la morte di Maruzza per il colera, la perdita della casa del Nespolo per l’insolvenza del debito e degli interessi, il traviamento di ‘Ntoni, che, tornato cambiato dal servizio militare, non si adatta alla vita di stenti, si unisce a una compagnia di contrabbandieri e ferisce con una coltellata il brigadiere don Michele, che lo ha sorpreso in flagrante con gli altri. Durante il processo l'avvocato imposta la difesa sostenendo l'attenuante dell'amore per 'Ntoni che sapeva di una relazione della sorella Lia con Don Michele. ‘Ntoni è condannato a cinque anni di carcere e Lia, considerandosi colpevole verso il fratello scappa di casa e si perderà. Il disonore getta nella costernazione i Malavoglia: padron ‘Ntoni, affranto, si ammala e muore all’ospedale. Intanto Alessi, che ha sposato la Nunziata, con la sua laboriosità riscatta la casa del Nespolo, dove torna ad abitare insieme alla sorella Mena la quale rifiuta di sposare compar Alfio, perché si sente anche lei disonorata per la perdizione di Lia. Nei Malavoglia si scontrano due concezioni della vita: la concezione di chi, come padron ‘Ntoni si sente legato alla tradizione e riconosce la saggezza dei valori antichi come il culto della famiglia, il senso dell’onore, la dedizione al lavoro, la rassegnazione al proprio stato; e la concezione di chi, come il nipote ‘Ntoni, si ribella all’immobilismo dell’ambiente in cui vive, ne rifiuta i valori ed aspira ad uscirne con il miraggio di una vita diversa. La simpatia latente del Verga è per padron ‘Ntoni e per il nipote Alessi, che ne riproduce il carattere e ricostruisce il focolare domestico andato distrutto. Attorno alle vicende dei Malavoglia brulica la gente del paese che partecipa coralmente ad esse con commenti ora comprensivi e pietosi, ora ironici e maligni. Lo stesso Verga narratore sembra essere uno del posto che racconta e commenta col distacco impassibile del cronista, vale a dire di un anonimo narratore orale; da ciò nasce l’impressione di un Verga narratore camaleontico, che assume di volta in volta la maschera e l’opinione di tutti coloro che entrano in scena. Anche il paesaggio partecipa alla coralità della narrazione, ora quasi compiangendo, ora restando indifferente alla sorte degli uomini. Per quanto riguarda la lingua, il Verga accettò, per sua stessa confessione, l’ideale manzoniano di una lingua semplice, chiara, antiletteraria. Egli riuscì a creare una prosa parlata, fresca, viva, popolare, che riproduce, nella sintassi e nel lessico, il dialetto siciliano. Nei Malavoglia è rigorosamente applicato il canone dell’imparzialità e dell’obiettività. Nella prefazione al romanzo, Verga sottolinea come lo scrittore di fronte alla propria storia non abbia il diritto di giudicare, ma solo di tirarsi fuori dal campo della lotta per "studiarla senza passione". Nella pratica poetica quest'idea si traduce in una tecnica di grandissima originalità. Abbondano i discorsi indiretti liberi, cioè gli interventi dei personaggi non mediati attraverso la elaborazione del narratore. Anche le parti connettive del romanzo non lasciano mai trasparire la sovrapposizione dell’autore e sembrano uscire dalla bocca di un anonimo paesano, che sia come un portavoce dell’intera comunità di Acitrezza. Per rafforzare questo effetto Verga si avvale di un discorso indiretto tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolare e di identificarsi con il pensiero della gente del posto. Inoltre utilizza più di 150 proverbi che esprimono in modo pittoresco la mentalità dell'ambiente sociale rappresentato.

Mastro Don Gesualdo

In Mastro-don Gesualdo il Verga narra le vicende di un ex muratore, che con la sua tenace laboriosità è riuscito ad arricchirsi. Non gli basta però la potenza economica, egli mira ad elevarsi socialmente e sposa Bianco Trao, una nobile decaduta che ha avuto una relazione amorosa col cugino Rubiera ed è stata da lui lasciata, perché la madre, la baronessa Rubiera, si è opposta al matrimonio riparatore. Il matrimonio con Bianca non porta a Mastro-don Gesualdo la sperata soddisfazione, perché, ora che è diventato "don", si sente escluso non solo dalla plebe dalla quale proviene, ma anche dal mondo aristocratico, che lo considera un intruso e lo tratta con distacco. Egli porta nei due titoli che precedono il nome "Mastro-don Gesualdo" il suo dramma: per la plebe è diventato un "don", un signore quindi, e perciò appartiene a un altro mondo; per gli aristocratici rimane il "mastro" di sempre, e quindi è un estraneo al loro mondo. Ma il dolore maggiore gli deriva dal non sentirsi amato né dalla moglie né dalla figlia Isabella, che, d’altra parte, non è propriamente sua figlia, ma è nata dalla relazione di Bianca con Ninì Rubiera. Egli, che ignorava tutto ciò, fa educare la figlia in un collegio di nobili e la vizia accontentandola in tutti i desideri. Ma poi si scontra con lei quando Isabella si innamora del cugino Corrado La Gurna, e la fa sposare ad un nobile palermitano. Mastro-don Gesualdo, che nel frattempo ha perduto la moglie, è costretto a lasciare il paese in rivolta per i moti del ’48; poi, essendosi ammalato di cancro, va ad abitare a Palermo nel palazzo della figlia dove assiste allo scempio delle proprie ricchezze e muore solo e abbandonato da tutti. Sul piano sociale il romanzo rappresenta la borghesia in ascesa di nuova formazione, avida e ambiziosa simboleggiata da Mastro-don Gesualdo, e le vecchie aristocrazie in declino, simboleggiate dai Trao. Mastro-don Gesualdo è un uomo senza riposo, sempre attento a custodire i suoi beni e i suoi affari, morso dal cruccio interno della coscienza che ha del proprio fallimento famigliare e sociale. Il mito del progresso e dell’innalzamento delle nuove classi, tanto spesso sbandierato dalla cultura del positismo, è sottoposto ad una critica assai più radicale che nei Malavoglia, e tutto ciò mentre anche i privilegi e le tradizioni dell’ordine antico sono osservati con occhio lucido, senza alcuna indulgenza. Nel Mastro lo scrittore, pur mantenendo la sua fedeltà al metodo impersonale e obiettivo, è indotto dalla maggiore complessità dei temi e dal maggiore approfondimento psicologici dei personaggi a usare soluzioni di linguaggio meno audacemente innovative rispetto ai Malavoglia. La lingua è quella d’uso comune, ma non propriamente popolare.

UNA PECCATRICE

Verga scrisse questo romanzo nel 1865, quando si trovava ancora a Catania, e lo pubblicò nel 1866 presso l’editore Negro di Torino. Sicuramente lo portò con sé nel primo viaggio a Firenze del 1865, durante il quale fu recensito positivamente su una rivista viennese, dalla letterata tedesca Ludmilla Assing, che teneva un salotto letterario ben frequentato nella città toscana. Il protagonista è il giovane catanese Pietro Brusio, studente di legge ma aspirante scrittore (sono evidenti i riferimenti autobiografici), che s’innamora della moglie del conte di Prato, Narcisa Valderi, ai suoi occhi donna irraggiungibile. Con l’aiuto dell’improvvisa fortuna letteraria, Pietro riesce ad ottenere il tanto atteso amore della donna, ma la certezza affettiva, il sentimento sicuro e corrisposto, il sogno che diviene quotidiano, mitigano l’eccitazione data inizialmente dalle prime difficoltà e le emozioni si spengono. Narcisa, ben consapevole dell’imminente fine del loro rapporto, si uccide concludendo la vicenda tormentosa. Pietro, ormai solo e conscio dell’effimero successo come scrittore, non può far altro che ritirarsi nella sua Sicilia.

Storia di una capinera

Tra i racconti di violenza della Sicilia post- unitaria, quello di Maria è indice di una società arretrata, povera e tradizionalista. La giovane Maria è una ragazza di tredici anni che, alla morte prematura della madre, viene votata alla vita monacale per volere della matrigna. Il padre infatti rimasto vedovo si unisce ad una donna spietata che, per favorire la figlia avuta da un precedente matrimonio, relega Maria ad una vita monacale. Far entrare Maria in convento, infatti, avrebbe permesso alla sorellastra di godere dell’intera ricchezza del patrigno. La giovane novizia ama la sua famiglia, fino a quando non realizza la violenza che questa sta esercitando su di lei, ovvero non poter godere della sua vita a proprio piacimento e in ogni suo aspetto. La rivelazione arriva quando, a causa di un’epidemia di colera scoppiata nel 1854 a Catania, la badessa ordina alle famiglie delle novizie di allontanarle dal convento e di riportarle a casa. Fuori dalla vita monacale, Maria assapora le emozioni di un mondo diverso da quello fino ad allora conosciuto. Infatti il convento era il suo unico punto di riferimento e da li derivavano tutte le sue esperienze. Si meraviglia delle cose più semplici e soprattutto scopre l’amore. La gioia e la serenità, provati in quel breve periodo, si trasformano però in angoscia e ossessione quando Maria è richiamata dalla badessa. Combattono dentro di lei sentimenti contrastanti: l’amore per il giovane Nino e il voto promesso alla Chiesa, un padre sempre tanto amato che adesso però l’ha abbandonata. La sua colpa è quella di aver conosciuto ciò che fino a quel momento non le era stato permesso di saper e di ritrovarsi poi senza via d’uscita. Il peso di tali turbamenti grava a tal punto sulla fragile psiche della novizia da farla precipitare nella pazzia, che è il modo più romantico che Verga ha per volgere la storia.

Tutte le novelle

La collezione completa di novelle di Giovanni Verga, tra le quali la raccolta pubblicata nel 1880 con il titolo "Vita dei campi". Il mondo elementare degli umili si sostituisce a quello artefatto della società oziosa e romantica dei suoi primi romanzi e lo stile diventa agile e scarno. Pur mutando tono e personaggi la passione rimane il movente principale dell'azione: l'ardore dei sensi, la gelosia e la vendetta sono le forze oscure che determinano il tragico destino dei personaggi. Vale la pena spendere due parole anche a proposito della raccolta, pubblicata nel 1883, con il titolo di "Novelle Rusticane". Può considerarsi un'anticipazione di "Mastro don Gesualdo", di cui condivide il motivo dominate: l'attaccamento alla "roba". Dal pathos violento delle novelle della "Vita dei campi" si passa qui a un umorismo doloroso in cui l'impeto delle passioni è irriso dall'inflessibile durezza del destino.

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