Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo
Levi, Se
questo è un uomo, 1947)
In questa poesia Primo Levi
sollecita i lettori a riflettere sullo
sterminio dei lager nazisti:
lo sanno tutti. Certo, a differenza di altre poesie presenti nel blog, in questo
caso è praticamente impossibile slegare il commento dal momento storico ma,
considerato il fatto che purtroppo i genocidi avvengono anche ai giorni nostri,
vedrò di fare una riflessione che in parte contenga anche spunti validi per ogni
epoca: in fondo ogni poesia ha più valore perché è potenzialmente eterna.
La poesia fa un appello diretto a tutti quelli che hanno la
coscienza tranquilla, che
vivono quasi senza prendere posizione su nulla: l'aggettivo
tiepida, riferito alla casa,
esprime bene questo stato di
situazione intermedia, né calda né fredda, perfetta nella sua
medietà, completata da cibi caldi e amicizie famigliari.
Dopo i primi quattro versi, arriva il pugno dello stomaco:
considerate, dice il Primo Levi.
Un verbo quasi scientifico, non dice ancora "pensateci", "dite la vostra":
invita a guardare il più
oggettivamente possibile e a fare una reale considerazione di
uno stato vivendi a cui è costretto un individuo.
Non sta parlando dell'uomo con la U maiuscola,
della specie umana, ma proprio di
colui che nel campo di concentramento fatica ("il lavoro
rende liberi" è il motto del lager di Auschwitz), che si ammazza per un pezzetto
di pane, che non trova quiete in niente e che infine può morire
per un sì o per un no.
Soffermiamoci su quest'ultimo aspetto: un'affermazione e un diniego. Siamo
lontani anni luce dal tepore sereno e neutro dei primi quattro versi, siamo
davanti ad una situazione "decisa",
in il libero arbitrio non trova spazio.
Dopo la descrizione dell'uomo, ecco quella della
donna, privata della sua
bellezza fisica e della sua memoria, annichilita persino nel suo nome e
nell'istinto materno e ridotta a scheletro di
rana. Uomini e donne, quindi,
defraudati delle loro caratteristiche umane e rimasti soli,
tristi particelle corporali da vivisezionare:
il lager ha rubato l'anima è ha lasciato solo corpi sofferenti.
Successivamente alla considerazione di tale scempio, non resta che
un imperativo: è giunto il
momento della riflessione, il momento del ricordo. Tutto quello che prima era
considerato in maniera quasi analitica, forse per precepirne quella che
chiamerei "assurdità reale", deve essere portato dentro il cuore,
la ragione deve elevarsi a sentimento
sotteso ad ogni azione quotidiana.
E' di nuovo un quadro famigliare
quello che si presenta alla conclusione della poesia: l'inizio e la fine della
giornata, il dialogo con i figli. Il comando è quello di
custodire il ricordo della degenerazione umana,
di ripeterselo nella mente come un rosario pagano. E' un'esigenza
imprescindibile che sfocia in una
maledizione contro tutti quelli che ne negano la necessità,
che chiudono gli occhi e fanno finta di niente: la condanna all'indifferenza è
fortissima, o almeno sembra tale, con i suoi strali che predicono malattia e
disgrazie. Ma se pensiamo all'inferno descritto prima, quello inciso nel finale
è comunque un disastro minore, un terremoto dentro un paradiso di normalità.
Sotto tale luce, lasciatemi una conclusione in tono sommesso, in un quadro
generico e, se vogliamo, fuori contesto: non dico che ci sarebbe di giovamento
se ci cadesse il soffitto in testa in testa, ma ogni tanto possiamo provare a
fare crollare la Casa del Grande Fratello, seppellire la Talpa, fare sprofondare
l'Isola dei Famosi, bruciare La Fattoria. Al loro posto, un attimo di pausa, a
televisore spento, per guardarci negli occhi con chi ci sta vicino e ricordarci
che esiste la realtà, con i suoi aspetti più scuri e con i suoi lati più
luminosi, quella realtà dove ci siamo noi e altri come noi, di qualsiasi razza e
condizione, ma sempre degni di essere uomini.