LA LEGGENDA DELLA MIMOSA
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La leggenda della mimosa In un paese lontano, all'altro capo del mondo, nell'isola
di Tasmania, ed in un tempo altrettanto lontano, nacque il fiore della mimosa.
Gli abitanti dell'isola ne raccontano la leggenda. In quel tempo, l'isola era dominata da un re guerriero,
molto coraggioso e bello, alto ed agile, di pelle scura e coi capelli neri e
lucenti come l'ala dei corvi, ma col cuore indurito dalle numerose battaglie.
Così era tutta la sua gente: alta, scura di pelle e brusca di modi, con lunghi,
lisci capelli a incorniciare il viso severo. Essi amavano i combattimenti contro
le numerose tribù nemiche, e le cacce pericolose alle belve che infestavano
l'isola. Combattimenti e cacce che affrontavano con altre grida crudeli, per
spaventare il nemico. Un giorno, durante l'ennesimo combattimento, il re venne
gravemente ferito. La madre e la sorella del re amavamo molto il loro caro, ma
non amavano affatto la sua bella e giovane moglie, che non giungeva gradita al
loro cuore, duro quanto quello di lui. La giovane regina era una creatura del
tutto diversa, piccola di statura, timida e gentile, con i capelli arruffati in
corti riccioli, biondi come batuffoli d'oro, la pelle dorata come miele puro e
una bassa voce soave che sembrava una musica. Pareva giunta lì da un altro mondo, la piccola regina, da
un mondo di fiori, di sorrisi e di pace. Le due donne, scarne, scure e crudeli
come il loro congiunto regale, erano inevitabilmente gelose della dolce, tenera
bellezza di lei. Approfittando della timidezza della piccola sposa, le due
donne si precipitarono a curare il loro congiunto, trattenendo con vari pretesti
la moglie lontana dalla tenda dove giaceva il ferito. Lei si disperava, perché
era molto innamorata di quel suo marito rude e forte, ma non osava far valere i
propri diritti di moglie, dimentica, nel suo sgomento, che erano anche doveri,
temendo di far cosa sgradita alla suocera ed alla cognata, e quindi di turbare
la convalescenza dell'uomo che amava. La piccola regina era sola, nessuno la consigliava, perché
i cortigiani, con la viltà dei deboli, si erano schierati dalla parte che
intuivano più forte, e crudele, in quella lotta silenziosa per impadronirsi del
cuore del Re. Passarono i giorni, che divennero settimane, e poi mesi.
Quando infine il Re fu guarito era ormai solo desideroso di punire la piccola
regina le cui visite aveva tanto aspettato, senza che il suo orgoglio di re gli
avesse permesso di ordinare la presenza della donna che nel suo cuore invocava.
E dunque il Re bandì dal suo cospetto, senza esitazione, la giovane moglie
innocente, senza nemmeno volerne ascoltare le ragioni, tanto il solo vederla,
ormai, gli riusciva sgradito. Giunse infine il fratello a riprendersela, il fratello,
della stessa impietosa razza del Re. Venne per riportarla a casa, ripudiata, libera, lei che era
cinque volte madre, di darsi ad un altro uomo. Ed in soli sette giorni il fratello la rimaritò ad un
Principe di luoghi lontani, distanti dal regno dal quale la piccola regina era
stata senza colpa bandita. Pure, timida e dolce com'era, la piccola, infelice Azar,
ormai senza più lacrime né desideri, non si ribellò al suo destino. Chiese
soltanto, come dono di nozze, un velo che le consentisse, nel lungo viaggio per
raggiungere la sua nuova dimora, di coprirsi il volto ed il corpo, per non
essere riconosciuta quando fosse passata dalle terre di Asan, padre dei suoi
figli e crudele signore, poiché l'incontro coi suoi piccoli le avrebbe senza
alcun dubbio spezzato il cuore. Il Principe suo nuovo sposo era meno duro di cuore di Asan,
e in qualche modo la disarmata dolcezza della piccola regina scacciata dal suo
regno ebbe a parlare al suo cuore. La giovane ebbe dunque il suo velo, col quale
si ricoprì interamente. Ma quando passò davanti alla reggia che era stata sua, i
figli di lei, che ogni giorno spiavano dall'alto delle torri il ritorno della
madre, la riconobbero nonostante il lungo velo ed accorsero piangendo e
invocando a gran voce il suo ritorno. Ancora una volta, Azar fece appello alla pietà del suo
nuovo Signore, chiedendo che le fosse consentito fermarsi un momento, e lasciare
un dono a ciascuno dei figli. Ed il Principe ebbe ancora una volta pietà della
piccola sposa disperata, e acconsentì alla richiesta. Così, Azar poté regalare
ai suoi bambini stivali trapunti d'oro, e lunghe, ricche vesti alle fanciulle, e
lascio un abitino per il più piccolo, che dormiva ignaro nella culla. Il padre
però, da lontano, vide tutto questo, e richiamò a sé i figlioli, che
dimenticassero in fretta la madre indegna di loro. Azar sentì quella voce dura dettare ancora una volta il suo
destino, e ancora non seppe trovare parole a difesa della sua inutile innocenza.
Si accasciò allora, ormai sfinita dall'ingiustizia e dal dolore, e sopra di lei
il lungo velo di nuova sposa si posò pietoso a coprirla da tutti gli sguardi. Andò più tardi il suo nuovo Signore a riprendersi
l'infelice creatura, deciso a regalarle una vita intera di felicità. Ma ormai il
destino di Azar era giunto a compimento. E fu così che il Principe pietoso, sotto il lungo velo che
era stato il suo dono di nozze, non trovò che un fragile arbusto fiorito di
mimosa, ben abbarbicato con le sue radici alla terra, deciso a non lasciarsi
strappare dal luogo dove era tutto il suo cuore, i piccoli fiori odorosi a
ricordare ai figli di Azar i batuffoli biondi che ricoprivano il capo della loro
madre, al tempo in cui era stata felice. Ad Azar, così dolce, remissiva, obbediente e infelice, il
tempo renderà poi giustizia alla sua bizzarra maniera: perché il fiore nato da
lei verrà riconosciuto da tutte le donne come il simbolo della propria presa di
coscienza, e della capacità di decidere esse stesse il proprio destino. Apparentemente delicato, in realtà forte e resistente,
impossibile da sradicare, contro il suo volere.