IL RACCONTO DI  LUIGI TORINO

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ANDREA

                                                     di Luigi Torino

A n d r e a *

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Alto, avvolto nel suo lungo cappotto scuro, teneva tra le mani un libro ancora nella custodia di cèllofan. Non lo vedevo da oltre un anno. L’ultima volta lo avevo incontrato al matrimonio di sua cugina. Mi era apparso inquieto, insofferente, scambiammo appena qualche parola.

<< Ciao Andrea! >> lo salutai volutamente con l’aria di chi incontra un amico con il quale poche ore prima ha preso un caffè.

Rispose a stento al saluto. Per niente sorpreso dal suo comporta-mento, ripiegai il giornale e lo invitai a sedersi al mio fianco sulla panchina:

<< Accomodati, è da molto tempo che desidero avere tue notizie.>>

Aderì all’invito così velocemente da darmi l’impressione che non aspettasse altro. Osservandolo mentre si aggiustava il cappotto per se-dersi facendo scorrere la mano dietro la schiena, pensai che lo conoscevo da sempre. Amici dall’infanzia, lo stesso liceo, la stessa facoltà di Economia e Commercio, avevamo avuto insieme anche alcune esperienze di lavoro.

Andrea era quel che si suol dire un ragazzo perbene e così ebbe un infarto in giovane età. Superata la fase acuta della malattia, i medici gli consigliarono di sospendere per un certo periodo ogni attività e di condurre una vita tranquilla, senza sforzi, al più fare “brevi passeggiate in piano”. La primavera volgeva al termine e Andrea, per difendersi dall’estate infuocata ed intensa del suo paese, decise di ritirarsi nella antica casa di campagna, a Corticelle di Mercato S. Severino. Molti ricordi legavano Andrea a quella casa. Vi aveva trascorso i periodi più felici della sua infanzia e, altrettanto felici, i primi anni di matrimonio.

Più volte, durante l’estate, andai a fargli visita, passando con lui l’intera giornata. In quel vecchio palazzo i giorni trascorrevano lenti, somigliandosi l’uno con l’altro. A brevi e assolate passeggiate nei dintorni, Andrea alternava lunghe letture nel cupo silenzio del giar-dino dietro casa. Il pino vertiginoso, custode geloso delle storie più segrete della famiglia, le due magnolie altissime, dalle scintillanti foglie metalliche, e la folta vegetazione creavano un’ombra spessa e protettiva.

In questa casa un tempo Andrea aveva conosciuto la gioia piena, l’appagamento senza condizioni, beatitudini senza amarezze: in una parola sola: l’amore. Ogni mobile, ogni oggetto aveva per lui un significato, un senso, una storia. Non c’era fiore o cespuglio che non avesse curato amorevolmente, non c’era albero su cui non fosse salito per raccoglierne i frutti. Quel pezzo di mondo gli era interamente appartenuto, gli era profondamente familiare, infinitamente caro.





Andrea era professore di ragioneria e commercialista, benché ai tempi dell’Università avesse dimostrato di possedere una spiccata attitudine e una vera passione per l’economia. Sognava, a vent’anni, di risolvere i problemi dell’umanità, in special modo il problema della fame e del sottosviluppo dei popoli del terzo mondo, che oggi appaiono sempre più come abitanti di un altro mondo. Erano frequenti le sere in cui, invece di venire a cinema con me e gli altri amici, si recava ad un seminario o si attardava a discutere dei problemi dei Paesi in via di sviluppo, come eufemisticamente si chiamavano allora i Paesi sotto sviluppati.

Parlava di programmazione lineare, di priorità dell’industria pe-sante su quella leggera, di investimento in istruzione, di produttività, ecc. ecc.. Si laureò a pieni voti discutendo una tesi sulle prospettive di sviluppo dell’industria conserviera vegetale, campo in cui aveva esperienza, avendo aiutato per diversi anni il padre, titolare insieme con il fratello di un’azienda del settore.

Accadde, però, per destino, come dicono i pagani, o per opera e virtù della Divina Provvidenza, come dicono i cristiani, che finì per occuparsi di imposte e tasse, anziché di teorie e politiche dello sviluppo economico o di gestione aziendale.

Le cose, all’incirca, andarono così. Nell’Italia meridionale, l’uni-co luogo in cui venivano affrontate le problematiche dei Paesi del terzo mondo era l’Università, ma Andrea dovette lasciar cadere in malo modo la grande occasione che gli si presentò. Il professore che lo aveva seguito nella stesura della tesi di laurea gli offrì un incarico di assistente. Andrea ne parlò a casa, ma il padre disse che c’era la fabbrica a cui pensare. Non se ne parlò più.

Dopo il servizio militare nella bella e addormentata Trieste, Andrea partecipò ai corsi per l’abilitazione all’insegnamento, conse-guendo un ottimo voto finale che, sommato al voto di laurea, gli consentì un facile ingresso nelle Scuole Superiori, peraltro anche in una sede comoda, vicino a Corticelle, dove con l’aiuto della fidanzata stava già arredando la casa per le nozze.

Il padre, qualche anno dopo, vuoi per l’età, vuoi per i tempi, vuoi per il deteriorarsi dei rapporti con i nipoti comproprietari, giudicò che non vi erano più le condizioni per mandare avanti l’azienda in maniera proficua e decise di cedere la sua quota.

Si concludeva così una guerra familiare che, senza essere stata mai dichiarata, si combatteva da circa trent’anni e in cui i discendenti delle due famiglie avevano profuso le loro migliori energie, le più fresche, quelle giovanili. Andrea aveva sempre cercato di mettere pace tra i due gruppi, ma non sempre i suoi sforzi ebbero successo. Ed essendo il più giovane, pagò il prezzo più alto, proprio nel momento in cui attraversava il confine che separa la giovinezza dalla maturità.

Dopo il sogno universitario, svaniva anche quello imprenditori-ale.

Anche ad un modesto conoscitore dell’animo umano, Andrea, in quei giorni, sarebbe apparso come un toro scalpitante senza arena, come un fiume senz’acqua, come un viandante senza via. Da allora, pur vivendo in bruciante tensione come una candela che arde da entrambi i lati, ora in esaltante creatività per un progetto edilizio da realizzare, ora pervaso da un frenetico godimento di trasmettere ai suoi alunni ciò che dalla vita aveva appreso, Andrea si portava dentro l’anima un sentimento di frustrazione che gli faceva apparire tutte le sue attività piccole ed insignificanti, mentre non lo erano affatto.

Di nient’altro viviamo se non dei nostri sentimenti, poveri, belli o splendenti, e ogni qualvolta facciamo torto ad uno di essi, è un colpo che portiamo al nostro cuore! E non solo metaforicamente.

Andrea non serbò rancore verso nessuno per come erano andate le cose, e negli anni successivi si adoperò perché il padre, sempre impegnato per la propria attività nel periodo estivo, trascorresse le restanti estati della sua vita in vacanza al mare, nel fresco della pineta di Paestum.

Così era stato Andrea nella giovinezza, in quel tempo favoloso in cui niente al mondo appare impossibile, niente al mondo difficile. In quel tempo tutto gli apparteneva e a tutti dava consigli. E in seguito, ancora per molto tempo, aveva continuato a vivere allo stesso modo …. fino alla svolta che la malattia aveva bruscamente determinato. Adesso un nuovo mondo si schiudeva alla sua vista, in pendio e irreale, costituito da ripide e lunghe discese e da lenti e brevi salite, spesso affrontate con l’aiuto di coppe ricolme di vino.

Queste mie considerazioni vennero bruscamente interrotte da Andrea che, guardandomi fisso negli occhi, mi chiese:

<< Gino, cosa mi è successo? Non so più cosa fare, quale strada prendere per uscire da questo vicolo cieco in cui mi sono cacciato>>.

Pronunziò le parole ad alta voce come chi da lungo tempo si porta dentro un greve peso e finalmente è riuscito a liberarsene.

La sua domanda non fu per me del tutto inaspettata. Spesso, negli ultimi tempi, mi era capitato di pensare ad Andrea, al difficile momento che stava attraversando da circa tre anni, da quando era stato male. Fisicamente sembrava essersi ripreso, psicologicamente ancora no.

Non dovetti riflettere molto prima di rispondere:

<<Se non mi dici dove vuoi andare, ossia qual è per te in questo momento la meta più importante da raggiungere, come posso indicarti quale strada devi prendere?>>

<<Vorrei per prima cosa riacquistare la serenità perduta>>, ri-spose.

<<Ah, per questo puoi star tranquillo, la strada c’è, devi ricercar-la innanzitutto dentro di te.>>

<<In che modo?>> esclamò.

<<Non ho ricette, Andrea. Posso solamente dirti come vedo sia andata per te la vita fino ad oggi. Credo ti sarà d’aiuto.>>

Osservai Andrea, aspettavo una risposta che non arrivò. Non mi guardava più in viso, stava chino con le braccia poggiate sulle gambe e fissava la figura sulla copertina del libro che teneva tra le mani. Dopo un attimo d’indecisione, mi feci coraggio.

<< Ti sei portato dentro -- continuai -- per troppo lungo tempo un sentimento di insoddisfazione. Ti sei sentito uno sconfitto anche quando risultavi vincitore. Non vedevi soddisfatte dalla vita tutte le tue aspettative, qualcosa, molto, dei tuoi sogni giovanili, dei tuoi ideali più alti, era rimasto in fondo al cassetto. Di fronte alle continue smentite che la vita quotidiana dava ai tuoi sogni di potenza e di gloria si presentavano due strade: o abbandonare le tue illusioni giovanili o sublimarle. Tu hai scelto la seconda, la più semplice.

Per molto tempo hai creduto nella felicità e nella possibilità di rendere felici gli altri che non lo erano. Sognando di aiutare gli abitanti dei Paesi poveri ad uscire dalle condizioni di precarietà e di fame, hai finito per sentirti buono ed altruista, superiore e potente. E’ difficile per te ora ricordare e capire quei sogni che allora riempivano la tua immaginazione. Talmente strani, talmente lontani dalla reatà adesso ti appaiono, adesso che con la malattia hai scoperto una cosa antica: la precarietà della vita.

Hai declamato l’Io, narcisisticamente, fin dalla nascita, ora il confronto con la naturale infelicità della vita ti ha fatto prendere coscienza della tua imperfezione, dei tuoi limiti. Ti eri illuso che potevi voler tutto, ora la paura ti ha riportato con i piedi per terra. Il tuo smarrimento è pari alla passata cieca sicurezza. La vita ti appare adesso come un gioco senza speranza che un baro armato ti ha obbligato a giocare. “ La partita è truccata, -- tu dici -- come posso giocare? “. Per l’ennesima volta nella vita ti trovi ad un bivio. Di fronte al baro armato potrai subito dichiararti vinto, rinunciando ad affermare la tua dignità: allora veramente perderai ogni diritto di far parte del consesso umano. Oppure potrai giocare, guardando ben dritto negli occhi l’antagonista. Perderai prima o poi, ma intanto ribellandoti al tuo destino ti sarai battuto nel solo modo che ti è concesso: mantenendo fede a te stesso.





Ma a ben guardare, Andrea, è questa poi solamente la tua con-dizione o non è forse anche la mia e quella di tutti gli altri uomini? >>

Avevo parlato tutto d’un fiato. Spesso avevo osservato Andrea seduto al mio fianco, cercando di incrociare il suo sguardo, ma egli non alzò mai gli occhi dal libro che lentamente faceva girare tra le mani.

Senza distogliere lo sguardo dal libro, disse:

<< Per me è stato diverso. Ho accettato a cuor leggero sconfitte e rinunce credendo ogni volta di privarmi di un pezzo dell’abito, ed invece, a poco a poco, mi sono tolto la pelle di dosso.>>

<< La vita di ogni uomo è fatta di vittorie e sconfitte, di ascese e ricadute. Ragionando a questo modo, non ti sembra di esagerare?>>.

<< No, non esagero. Gino, io ho perso l’identità!>>

<< L’identità non è data solamente dalla memoria del tuo passato, dalle cose che hai fatto o speravi di fare; a dar forma all’identità contribuiscono soprattutto le speranze, le aspettative di ciò che potrai ancora realizzare. Il vento che soffierà domani sarà solo quello di domani.>>

Trascorsero alcuni momenti di silenzio, poi, quando si rese conto che non avevo altro da aggiungere, Andrea si girò verso di me e mi fissò per alcuni istanti. Mi sembrò di scorgere un lieve sorriso sul suo volto. Poi, guardando l’orologio, esclamò:

<<Sono le cinque e mezza! Si è fatto tardi.>>

Velocemente si alzò e si allontanò lungo il viale tirandosi su il bavero del cappotto per ripararsi dal vento che spingeva alle sue spalle.

Lo accompagnai con lo sguardo finché non scomparve alla pri-ma curva del viale, poi andai via anch’io prendendo la sua stessa direzione.

 

 

 


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