I - Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo,
squilla! Non altra terra se non là, nell'aria, quella che in mezzo del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e solitaria terra, inaccessa. Dall'ultima sponda vedete là, mistofori di Caria,
l'ultimo fiume Oceano senz'onda. O venuti dall'Haemo e dal Carmelo, ecco, la terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida del cielo.
II
Fiumane che passai! voi la foresta immota nella chiara acqua portate, portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate, sì grande spazio di su voi non pare, che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare, o monti! o fiumi! era miglior pensiero ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l'infinita ombra del Vero.
III
Oh! più felice, quanto più cammino m'era d'innanzi; quanto più cimenti, quanto più dubbi, quanto più destino!
Ad Isso, quando divampava ai vènti notturno il campo, con le mille schiere, e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.
A Pella! quando nelle lunghe sere inseguivamo, o mio Capo di toro, il sole; il sole che tra selve nere,
sempre più lungi, ardea come un tesoro.
IV
Figlio d'Amynta! io non sapea di meta allor che mossi. Un nomo di tra le are intonava Timotheo, l'auleta:
soffio possente d'un fatale andare, oltre la morte; e m'è nel cuor, presente come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente, che passi in alto e gridi, che ti segua! ma questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua. -
V
E così, piange, poi che giunse anelo: piange dall'occhio nero come morte; piange dall'occhio azzurro come cielo.
Ché si fa sempre (tale è la sua sorte) nell'occhio nero lo sperar, più vano; nell'occhio azzurro il desiar, più forte.
Egli ode belve fremere lontano, egli ode forze incognite, incessanti, passargli a fronte nell'immenso piano,
come trotto di mandre d'elefanti.
VI
In tanto nell'Epiro aspra e montana filano le sue vergini sorelle pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle, torcono il fuso con le ceree dita; e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita ascolta il lungo favellìo d'un fonte, ascolta nella cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.
Commento
In questo celebre poemetto conviviale, Alessandro Magno è giunto alla fine di
tutto ciò che poteva conquistare; ora si volge , turbato, a esaminare il
significato del suo cammino e delle sue conquiste. Possedere terre e popoli non
lo soddisfa, perchè nell'animo umano c0è una costante incontentabilità,
un'aspirazione all'oltre, destinata a scontrarsi con i limiti imposti dalla
natura, dalla storia, dalla realtà. La celebrazione dell'eroe antico diviene
così, in Alexandros, una turbata interrogazione sui destini umani. Siamo al polo
opposto della cultura positivistica, con la sua fiducia negli strumenti
razionali di conoscenza e comunicazione; siamo agli antipodi anche del
classicismo eroico delle Odi barbare di Carducci: quello di Pascoli è un
classicismo molto più inquieto e moderno.
Quali i motivi chiave? L'ansia dell'ignoto, il fascino del mistero e la brama
inappagata. Il poemetto Alexandros, come gli altri poemi conviviali, è
ambientato nel mondo dell'antichità classica, di cui fa rivivere i personaggi e
i riferimenti storici, secondo però i modi e i sentimenti del Pascoli.
Alessandro, giunto alla sua ultima conquista, ai confini della terra, ne piange
l'angustia, e rimpiange il sogno che ne ampliava infinitamente la grandezza.
Creatura insoddisfatta, egli sente vivo l'anelito che lo esaltava e che gli
brucia ancora dentro immenso come il suo sogno infranto dalla realtà, e perciò
triste e infelice:
Piange dall'occhio nero come morte; piange dall'occhio azzurro come cielo
Così è la sorte sua e quella di tutti noi: sognare e inseguire la felicità e,
una volta raggiunta la meta, l'attuarsi del sogno, sentire, l'amarezza della
delusione, e l'accendersi di un nuovo e più grande desiderio.
Il poemetto esprime lo stato d'animo e il pensiero filosofico del Pascoli più,
allusivamente e suggestivamente , per mezzo di quadri, di immagini e di musica
che non per mezzo di sentenze. E in ciò sta il suo valore poetico.
Parafrasi
I [Versi 1-10]
Siamo arrivati: questo è il confine. O araldo suona la tromba! O soldati, non
altra terra (da conquistare) tranne (la luna) che in cielo si riflette
brillando, nel mezzo del vostro scudo; terra che vaga (nel cielo) e solitaria,
mai raggiunta (prima da nessuno). Da riva estrema potete vedere là, o soldati
(della regione) di Caria, l'ultimo fiume, l'Oceano, immobile. O soldati giunti
con me dal monte Emo e dal monte Carmelo, ecco guardate, la terra sembra
scomparire e sprofondare nel buio luminoso del cielo stellato.
II [Versi 11-20]
O fiumi in piena da me oltrepassati. Voi riflettete nell'acqua limpida
l'immagine della foresta immobile, voi trasportate il sordo rumore delle onde
che non s'arresta mai. O montagne che ho superato! Dopo avervi scalato, lo
spazio che si scorge dalla vostra cima non sembra altrettanto sconfinato di
quello spazio che, prima di salire in vetta, ancora più grande nascondete. O
monti, o fiumi, che siete azzurri come il cielo, come il mare! Non guardare
oltre e limitarsi a sognare, questa sarebbe stata una decisione più saggia: il
sogno è l'infinita ombra della verità.
III [Versi 21-30]
Oh! Ero ranto più felice, quanto più cammino avevo davanti a me, quante più
difficoltà, quanti più dubbi, quanto più futuro avevo davanti a me! Ero più
felice a Isso, quando l'accampamento notturno bruciava sotto le folate dei
venti, in mezzo alle numerose schiere di soldati e ai carri neri e agli armenti
di buoi che non si potevano contare. Ero più felice a Pella, quando, durante le
lunghe sere, o mio cavallo Bucefalo, inseguiamo il sole, il sole che brillava
come un premio tra i boschi ombrosi, sempre più lontano.
IV [Versi 31-40]
O padre mio figlio di Amynta! Quando mi misi in viaggio non pensavo obbiettivi
confini da raggiungere. Quando siamo partiti Timoteo, il cantore, intonava tra
gli altari un inno sacro; inno che era come il potente soffio di un andare
deciso dal destino, in grado di proseguire oltre la morte; e tale inno mi è
rimasto nel cuore, ancora vivo come resta in una conchiglia il mormorio del
mare. O acuto squillo di tromba, o voce di uno spirito coraggioso, che sali in
cielo e lanci il tuo suono, io ti voglio seguire! Ma non posso perchè questo
luogo è il confine oppure la fine, l'Oceano, il Nulla... e il canto passa e si
perde oltre noi.
V [Versi 41-50]
E con queste parole Alessandro si lamenta, dopo esser giunto laggiù al confine
delle terre emerse ansimante piange dall'occhio che è nero come la morte e
piange dall'occhio che è azzurro come il cielo. Piange perchè nell'occhio nero
la speranza si fa sempre più inutile, questa è la sua sorte, mentre nell'occhio
azzurro il desiderio si fa più forte. Egli ascolta in lontananza bramiti di
belve, forze sconosciute, inarrestabili, passargli davanti nell'immensa
superficie dell'Oceano come il suono di mandrie di elefanti al trotto.
VI [Versi 51-60]
Intanto nell'Epiro, sua patria, selvaggio e montuoso, le giovani sorelle di
Alessandro filano la pregiata lana di Mileto per il loro caro assente. A tarda
notte, fra le servitrici operose, ruotano il fuso con le dita bianche come cera;
piade, rapita dalle fantasie di un sogno, ascolta il prolungato mormorio di una
sorgente, ascolta nella vuota ombra infinita dalla foresta le querce secolari
stormire sulla montagna.